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Nel centenario della nascita del grande drammaturgo Pier Paolo Pasolini, ripropongo un mio articolo giovanile pubblicato da Cadmo Editore sulla Rivista d’Europa nel primo numero di febbraio-marzo 1978.

‘AFFABULAZIONE’. Ierofania e rappresentazione in un dramma di concetti

Pressoché contemporaneo all’elaborazione di ‘Edipo Re’ e ‘Teorema’ e nell’analogo clima drammatico di una lacerazione interiore in cui predomina l’atteggiamento moralistico e provocatorio carico di contaminazioni mitiche e ideologiche, è l’inizio della produzione teatrale di Pasolini, ulteriore sperimentazione linguistica originata dal ‘troppo grande amore’ per il mondo, che rivela l’esigenza di una totalità anelante al proprio senso unitario, in una sorta di quadro pansemiologico, in cui si compie finalmente l’itinerario della disillusione dell’autore. Il tema dell’incompatibilità tra modo borghese e modo religioso di vivere, sviluppato ampiamente nel film Teorema e nell’omonimo romanzo, è ripreso nel secondo dei due testi teatrali anteriori a Calderòn e non stupisce che in esso, accanto ad espliciti richiami al Teatro di Parola, il cui manifesto teorizzato su “Nuovi argomenti” pone problemi e dibatte idee senza proporre soluzioni esaustive e necessarie, secondo i dettami del canone sospeso che non fornisce certezze, vi sia un’ambientazione interamente borghese.

La critica alla condizione borghese e al relativo peccato di omissione consumato sino in fondo, basa il proprio giudizio su di un trauma interiore avvertito con amarezza ed espresso con dolore, divenendo accorata autocritica e confessione lancinante; egli scava nella propria infelice coscienza con l’intento di esporre alla luce le radici oscure di una negazione che lo domina, dall’attaccamento viscerale a un modo di essere preistorico, barbarico, all’assillo di un interrogativo che grava sulla sua condizione di uomo civile, desideroso di partecipazione ideologica e consapevole. Tale contraddizione operativa si configura come condanna espressa nei confronti della tendenza del pensiero borghese a negare ogni sacralità, al punto che il razionalismo borghese ignora nelle sue espressioni estreme l’esistenza stessa dell’Arte.

Il dramma Affabulazione – rappresentato di recente al teatro Tenda di Roma da Vittorio Gassman – è il tragico rapporto conflittuale di odio amore in uno stato di continua, violenta tensione tra il padre industriale, visitato da una profonda crisi esistenziale con risvolti religiosi, che lo inducono a violare il segreto della vita del figlio con un sentimento ambiguo di affetto e di possessione, e il figlio, la cui felice normalità intesa quale ‘diversità’ produrrà il proposito omicida nella mente delirante del padre, incapace di risolvere razionalmente il problema, abituato com’è a vedere materializzato ogni valore, per poter attribuire un senso definito al possesso; la conoscenza per il dominio è in lui più forte dell’amore in sé della conoscenza. La felicità del figlio è un mistero alle cui soglie la ragione deve sostare, ammonisce Socrate, e soltanto l’arte può attingere, al di fuori dell’ingerenza paterna, oggettivando il figlio con la sua autonomia di uomo. Nel mistero consiste la felicità. Questo padre è l’immagine della crisi perenne di Pasolini, erede di una cultura razionalistica che si accanisce, nel proprio atto di appropriazione conoscitiva, in un allucinato, infantile e pragmatico amore per la realtà, amore anche e soprattutto religioso che si fonda con un sorta di immenso feticismo sessuale, in un trasporto totale fatto di rispetto venerante e di bisogno di violare tale rispetto attraverso dissacrazioni violente e scandalose.

Il contenutismo di Pasolini prende atto del trauma dell’esautoramento della parola letteraria e ricostituisce altrove il mito della poesia, ritrovando nel presente infernale le tracce incancellabili del passato arcaico e sacro. Il linguaggio dell’azione in lui tende a dare alla realtà una fisionomia ontologicamente pragmatica con l’affermazione esplicita in favore della ‘presenza’, volgendosi alla fenomenologia di Husserl; elabora la propria concezione semiotica in cui la rappresentazione ha il predominio sul valore. La sacralità del vivente e la mitizzazione della realtà costituiscono la referenza culturale della teoria pasoliniana.

Il modello mitico di Pasolini, che si pone al di là dell’opposizione presenza-assenza fino a comprenderla, è l’indizio di un’assenza mai superata e che rivela nondimeno una presenza sempre agognata. Il desiderio di sincerità che l’Autore sentiva impellente, lo induceva ad eccessi di automanifestazione esuberante; ricercava costantemente un ubi consistam e ritrovava di continuo il suo io, solitario nella sua scelta tragica; anelava all’assoluto e non faceva che dilatare in assoluto l’io, prorompente e liberatorio, diabolicamente scandaloso. E l’alta coscienza di sé sublimata dal desiderio nello struggimento e nel rimpianto gli impediva il supremo atto di umiltà che solo gli avrebbe consentito l’oggettivazione di se stesso a soli fini conoscitivi. Il problema personale diviene un fatto generale, politico; i suoi rapporti drammatici avvengono con tutto ciò che è paterno. Il solo vero copione teatrale di Pasolini era quello della sua vita. I dati autobiografici, anche in Affabulazione, messi in chiaro da una elementare decodificazione, sopravvivono all’operazione artistica non risolti.

L’intervento di Sofocle quale deus ex machina che pretende evocare un rituale predisposto in anticipo: l’elogio al teatro, la teorizzazione della realtà come linguaggio, l’identificazione di pragma ed enigma in una opposizione originaria, mitica e primitiva, e perciò permanente, e il momento estetico che normalizza questa identificazione, la superiore espressione dell’Arte, infine la sacralità dell’essere, portentoso, misterioso, assolutamente innaturale; l’ombra del grande tragico, dicevo, la avverti quale residuo intellettualistico nella sua disarmante ingenuità, che sovrappone stancamente la propria presenza all’intreccio dialettico del dramma, nel tentativo indifeso di rendere ragione dell’autenticità della rappresentazione, testimonianza evidente e diretta di amore al Teatro.

La mimesi di Pasolini, nello sforzo di superare la mediazione letteraria e placare la propria dissociazione, non ha mai in effetti raggiunto la realtà: il passato si disvela nel presente come suo momento ineliminabile, che continua a nutrirlo, anche se l’universo borghese tende costantemente a rimuoverlo. Il segno affonda le sue radici nelle origini magiche e tutto quanto è sovrapposto dalla civiltà e dalla storia è ricondotto alla natura del puro pragma incosciente, la lingua scritta all’espressione verbale, la storia al mito e al tempo sacrale. La realtà solo nell’interiorità può essere tradotta, ricordata o sognata. L’anelito alla presenza è portatore di verità; se la realtà è linguaggio è anche perché il pragma è sempre enigma, il vivere è un esprimersi attraverso il pragma, e tale espressione non è che un momento del monologo che la realtà fa con se stessa a proposito dell’esistenza.

In Affabulazione il tema mitico è assunto per la facilità con cui può essere caricato di funzioni simboliche, e i protagonisti, sfaccettature diverse di un medesimo stato di coscienza, rispecchiano una intensa componente autobiografica: mito personale e mito classico, riferimenti psicoanalitici e interpretazione della realtà si intrecciano complessamente, in una moltiplicazione di significati irrazionali dichiarati o indirettamente allusivi. Compare nel dramma l’idea anche fisica della morte , in un momento in cui dovette insorgere nell’Autore un sia pure incompleto e combattuto senso di religiosità emozionale metafisicamente inteso; e il sentimento della morte, spinto fino al desiderio di autodistruzione, interrompe l’illusione dell’infinito piano-sequenza che è la vita, e trasforma la vita stessa in linguaggio, ed è il fondamento della sua sacralità e non naturalezza, l’unico evento che dà una vera grandezza all’uomo. Veramente l’uccisione del figlio da parte del padre, Laio che uccide un Edipo adolescente nell’ansia di penetrarne il segreto, è atto ineluttabile che tuttavia il padre stesso definisce regicidio: atto supremo di appropriazione e simbolo di distruzione di ciò che più conta, nell’ansia delirante di possederlo.

Affabulazione è dunque dramma di segni-concetti. Più che morale della favola, scoperto apologo, elevazione di idee a mito, in cui scandalose e volontaristiche trasgressioni si alternano a monologhi interiori. La decisione di operare con categorie sufficientemente codificate e razionali su una materia assolutamente non razionale, senza proporre necessariamente soluzioni o risultati logici, rende il motivo moralistico-provocatorio di Pasolini ancor più significante, in quell’assiduo impegno di autoanalisi che costituisce una delle componenti essenziali della tensione poetica dello scrittore.

Di Sebastiano Biancheri