di Riccardo Bramante
La figura del regista teatrale come artista a cui affidare il compito di ottimizzare il lavoro scenico si incomincia ad affermare nel secolo XIX soprattutto con il Teatro dell’Arte di Mosca, con le lezioni di Kostantin Stanislavskij e con le regie di André Antoine al Théatre Libre di Parigi.
All’epoca, invece, la scena italiana era ancora trattenuta entro schemi di impolverata teatralità in cui, anche per la mancanza di valide alternative nazionali, si mettevano in scena soprattutto lavori stranieri già conosciuti dal pubblico, la cui organizzazione veniva affidata al cosiddetto “capocomico” il quale elaborava lo spettacolo secondo i propri gusti o, peggio ancora, lasciando al primo attore il compito di condurre la rappresentazione a proprio piacere senza un vero coinvolgimento di tutte le componenti che portavano avanti lo spettacolo.
A parere di Sergio Tofano e della maggior parte della critica, fu Virginio Talli (1858-1928) il primo a ricercare in Italia un tipo di allestimento che avesse una visione registica dello spettacolo. Dopo esperienze fatte come attore, dal 1912 Talli iniziò, infatti, ad occuparsi solo di direzione artistica per importanti compagnie come la “Drammatica Compagnia di Roma” del Teatro Argentina e la “Compagnia Nazionale” finanziata dallo Stato. A lui si deve il primo tentativo di mediare tra valori collettivi ed esperienze individuali elevando il teatro a prassi culturale e creando presso il pubblico una educazione alla critica sul testo e sulla realizzazione scenica.
Anche se non si può considerare un vero regista teatrale, una certa affinità con Talli ebbe il commediografo Dario Niccodemi (1875-1934) per la sua intuizione della opportunità, al momento della messinscena, di ascoltare anche gli attori e di tener conto dei loro suggerimenti.
Con maggiori ambizioni culturali si collocò, invece, l’attività del “Teatro dell’Arte” che con Luigi Pirandello (1867-1936) come regista di suoi lavori, alla ricerca dell’intima essenza della sua produzione drammaturgica, cercò di ricomporre immagini di vita fortemente interiorizzata operando sugli attori per far emergere la psicologia viva dei vari personaggi.
Ma il primo vero teorico della regia teatrale in Italia fu certamente Anton Giulio Bragaglia (1890-1960) che, approdato dapprima al teatro come scenografo, mise in chiaro le sue teorie sulla messinscena soprattutto in due opere: ”Del teatro teatrale ossia del Teatro” e “Variazioni sulla regia” in cui sosteneva, in sintesi, che in uno spettacolo teatrale tutte le componenti dovevano trovare un equilibrio tra loro per convergere in una atmosfera che desse il senso e la comprensione dello spettacolo secondo una dinamica multipla e stupefacente, in contrapposizione al cosiddetto “Teatro di pensiero” in cui tutto è circoscritto a quanto accade sulla scena stessa, con un effetto quasi da “quarta parete” tanto caro a Brecht e Ionesco.
Non poche polemiche suscitò al riguardo la visione di Silvio D’Amico secondo il quale, essendo la parola il vero e unico artefice della comunicazione, essenziale era ristabilire il rispetto del testo al cui servizio si dovevano porre tutte le altre componenti della scena. Ed è sempre D’Amico che nel suo libro del 1928 “Il tramonto del grande attore” propugna l’idea di una riforma del teatro italiano da realizzare attraverso l’avvento di una nuova figura, quella di “colui che mette in scena”, fondando nel 1936 l’”Accademia nazionale d’arte drammatica” che diresse fino al 1955 e che ebbe grandi insegnanti come Tatiana Pavlova, in fuga dalla rivoluzione bolscevica, e Guido Salvini, ispiratore della riforma teatrale russa di Kostantin Stanislavskij.
E’ con l’Accademia dedicata a Silvio D’Amico che si conclude il periodo glorioso che ha visto la nascita di una vera regia italiana di cui è doveroso ricordare qui alcuni degli interpreti che da quella Istituzione uscirono come Luigi Squarzina, Andrea Camilleri, Luca Ronconi, Carmelo Bene e tanti altri più recenti.