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La Lettera di mammà al Teatro Prati di Roma.

di Sebastiano Biancheri

Imbrigliata l’emozione del rientro dopo quasi due anni di chiusura pandemica del suo salotto esclusivo, Fabio Gravina propizia il ritorno alle scene allestendo con estrema cura l’operazione nostalgia.
Lo fa da par suo, dopo aver rispolverato un manipolo di valenti artisti, quasi tutti collaudati, tutti all’altezza delle consegne, nel solco di una fiorente, inossidabile tradizione, nel segno della dinastia teatrale più longeva ed illustre. Dopo un digiuno asfissiante, rialza il sipario stanco, dà fiato alle trombe e inaugura il futuro. Stordisce il pubblico ‘finalmente in presenza’ e regala agli affezionati in debito di buonumore due ore e mezzo di godibilissima apnea. ‘La lettera di mammà’, farsa in due atti scritta da Peppino De Filippo in collaborazione con la sorella Maria Scarpetta nel lontano 1933, è un tourbillon di risate che non consente il rifiato, una girandola inesauribile di burle ed intrallazzi che dal 2 aprile fino al 29 maggio hanno deliziato una platea fremente e ben disposta a farsi coinvolgere nello scherzo da provocazioni che, oltre la facile risata, insinuano riflessioni semiserie e scuotono le coscienze. Come sempre accade in questo teatro. Alla maniera del Prati.
La commedia è lo spaccato di un paese che non c’è più, di una Napoli che solo due anni prima Eduardo aveva magistralmente narrato in ‘Natale in casa Cupiello’. Due opere tanto diverse eppure accomunate dal medesimo periodo storico fra le due guerre, dai medesimi affanni per sbarcare il lunario, da contrasti fra ceti sociali che favoriscono da sempre l’arte dell’arrangiarsi e la cultura dell’imbroglio, della competizione e della vanagloria ad ogni costo. Una sfida quotidiana tra accettazione, ostentazione ed eccessi, dove le passioni e i sentimenti autentici, solitari, incompresi o sbeffeggiati, hanno vita dura e spazi angusti, stretti nella morsa dell’eterno conflitto tra essere e apparire. ‘La lettera di mammà’ mette a confronto due famiglie che hanno percorso in senso opposto la rampa del successo e della fama. All’ ascesa dell’una corrisponde un irreversibile declino dell’altra. Il barone Edoardo Mesti di Castelfusillo è un nobile un po’ trasandato nel vestire, decaduto nel censo ma non nelle aspirazioni del portafoglio e non si rassegna al disonore che deprime il rango. Il matrimonio del proprio nipote Riccardo, principe di Corinto e signore del Bosforo, con Claretta, figlia di Gaetano Bentivoglio, ricco commerciante dai modi rozzi, e di Luisa, è un’opportunità da cogliere. Soprattutto per sistemare le sue tasche vuote, oltreché assicurare continuità alla stirpe che rischia l’estinzione. Miseria e nobiltà stridono e convivono mestamente in lui sotto il medesimo tetto, quello di una dimora in affitto, fatiscente e squallida. Al contrario, la ricchezza dell’oggi è labile e imprevedibile, non dà certezze, e Gaetano e Luisa non possono accontentarsi di un pur cospicuo patrimonio tra case e rendite di vario tipo.
I milioni accumulati non fanno titolo nobiliare e il richiamo di uno stemma con tanti fioroni alternati da palline è in grado di appagare a pieno l’ambizione più grande di due semplice borghesi, quella di una inattesa se pur farlocca appartenenza araldica. Pecunia non olet e allora, anche se l’aspetto di Teresina, la ancor nubile e orripilante sorella di Luisa, per giunta dall’alito letale, non invoglia ad accostamenti di alcun genere né a pensieri peccaminosi, il barone, pur di sfamarsi finalmente con regolarità, è disposto al sacrificio estremo. Pettegolezzi, invidie e immancabili liti in famiglia non turbano il corso degli eventi. E’ tutto pronto, favorito da un sedicente procacciatore di affari di cuore a pagamento, tal cavalier De Rosa, che ha certificato l’aristocratica discendenza in secula seculorum. Claretta e Riccardo sono i due giovani capri espiatori dei loschi traffici di interessati famigli e non sembrano così bene assortiti. Lei è una ragazza da marito, consapevole, dolce ma determinata; le passeggiate in compagnia delle amiche e le funzioni religiose sono un pretesto per guardarsi attorno e ‘brucare’. Lui è appena diplomato, fresco di collegio, un ragazzone tontolone e imbranato, senza un minimo di nozioni fondamentali alla bisogna. Il loro incontro ufficiale è imbarazzante per tutti, soprattutto per la promessa sposa, che ascolta esterrefatta i programmi deliranti del suo sposo che le sta per riservare una esemplare vita monacale. Le presunte barzellette dell’incolpevole rampollo mettono a disagio anche la tappezzeria e sembrano chiudere ogni parvenza di dialogo. Due matrimoni in famiglia sono troppa grazia per chiunque.
C’è inoltre una lettera malandrina che rischia di mandare all’aria la combine. E’ la raccomandazione che in punto di morte la mamma fa all’ingenuo Riccardo: quella di rispettare la donna fino alla venerazione. Lei, maltrattata da un marito violento, non ha avuto vita facile e il suggerimento è d’obbligo, va perseguito ma anche decifrato. La donna ‘è una cosa sacra, al di sopra di tutte le miserie umane, al di sopra di tutti i bassi istinti. Voglio che tu tratti le donne come un eterno ideale’. L’interpretazione rigorosa, assolutamente ‘letterale’ che il placido Riccardo darà a quel testamento spirituale tanto caro scatenerà l’ira degli sbigottiti suoceri e ancor più della malcapitata, disperata Claretta. Occorre mettere riparo a tanta offesa che l’ignaro ‘baroncino’ ha causato suo malgrado. L’esposizione esegetica del fibrillante, inviperito zio, tra luoghi comuni e modi di dire, non sortisce effetto alcuno, ma solo ottusità piatta. E allora non resta che mettere il bamboccione di fronte alla realtà celestiale dei sensi. E quale miglior occasione se non l’appassionato bacio tra la fedifraga Emilia, Carnale di nome e di fatto, e l’assatanato, disturbato Ernesto, dipendente esagitato a bottega? Lo zio eviterà la clausula vessatoria imposta da Gaetano che, in caso di matrimonio non consumato e senza prole dei due giovani, gli avrebbe impedito a sua volta di convolare a giuste(?) nozze con la zitellona Teresina. Non avrà accanto a sé la Venere di Milo, ma se ne farà una ragione pensando alla dote incamerata. ’La lettera di mammà’ è un richiamo al senso e al rispetto della vita, soprattutto quella dei più fragili e di coloro di cui dovremmo prenderci cura. Messi in ridicolo vizi e pregiudizi, scoperchiata l’arroganza e l’anacronismo di tante credenze popolari, di intrighi e convenzioni che puntellano per non soccombere, la morale della favola risiede nelle storture e nei guasti prevedibili e a volte drammatici che possono derivare ad altri da comportamenti intenzionali messi in atto per opportunismo ed ingordigia, ad esclusivo vantaggio di chi ordisce la trama.

Gli interpreti.

Fabio Gravina è il barone Edoardo Mesti di Castelfusillo. E’ l’inesauribile trascinatore di una compagnia coi fiocchi. Il solito gigante. La sua maschera, il dinamismo, l’ardimento  da funambolo, l’ imperturbabile aplomb rappresentano la quintessenza del teatro d’autore. I battibecchi con Gaetano, la sofferta vicinanza con Teresina, le prove di dialogo con il nipote Riccardo sono solo alcune delle gemme di una prestazione maiuscola.
Patrizia Santamaria è una effervescente Luisa. Padrona di casa verace e incontenibile. Agguerrita in ogni circostanza, nell’inseguire il blasone prima e nel travolgere il barone poi, impreparata all’amara sorpresa.
Flora Giannattasio è Giuseppina, una cameriera tuttofare e a tutto campo, intraprendente ed insolente come si conviene.
Mara Liuzzi è Teresa, irresistibile macchietta di promessa sposa senza tempo. Innamorata e incredula. Non corrisposta per ovvie ragioni, si prende infine la sua rivincita. Un punto fermo del teatro Prati.
Sara Religioso è la tenera Claretta. Disposta ad accettare un marito sconosciuto e goffo, ma non un destino infame che le vuol guastare la festa. Fiera e veemente nel far valere i suoi diritti. Espressiva e a suo agio in ogni circostanza. Una gradita sorpresa.
Carmen Landolfi è Emilia Carnale, la seducente amante di Ernesto. Disinibita e disinvolta, avvenente e preziosa per naturale inclinazione, sa come farsi desiderare dal suo cavalier servente e mena la danza a piacimento.
Antonio Lubrano è Gaetano, il ricco commerciante che la sa lunga e non le manda a dire. Ha il cervello fino di chi si è fatto da solo. Non è certo intimorito dal lignaggio altrui. E’ sempre lui a dettare le condizioni della tresca. La solita grande presenza scenica.
Fausto Morciano è Ernesto, l’amante maldestro. Lo avevo lasciato ne “La Presidentessa” ‘ministro cinico e brutale disposto a tutto pur di soddisfare le sue voglie’. Lo ritrovo a distanza di tempo e non so se ha perso il pelo; di certo non il vizio. Confermo il giudizio. ‘Attore magnetico dalle indubbie doti drammatiche e dalla recitazione incisiva’.
Eduardo Ricciardelli è il cavalier De Rosa, convincente sensale disposto a scommettere il falso pur di intascare la vincita. Abituato a leggere astruse e improbabili carte genealogiche che non saranno confutate, riesce nell’intento con grande maestria.
Geremia Longobardo è Riccardo, l’ingenuo e aitante baroncino con la convinzione che i maschietti nascano sotto i cavoli e le femminucce nei rosai. Ha la stazza di un granatiere e il candore di un neonato. Formidabile interprete in un ruolo non facile.  Nel verso scimmiottesco mi ha ricordato un altro nipote: ‘Il nipote Picchiatello’. E non suoni irriverente. Trattasi semplicemente di casuali, analoghe circostanze.
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