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Un disco come “Vado mo’?” sembra una geniale congestione di blues, di irriverenza poetica, di abitudinario vivere pop e metropolitano ma anche di visioni romantiche: la capacità dei cantautori di prendere anche una semplice pigrizia e trasformarla in un romanzo di vita. Luca Bocchetti, romano de Roma, volutamente tira fuori un blues autoprodotto in romanesco (ma neanche troppo) e mescola di tutto dentro, leggerezza e cuore pesante. E dalla camera di casa sforna un lavoro che certamente cerca la melodia facile ma anche no… insomma… un blues romano, italiano, chissà di quale tempo poi…

Quando ormai sentiamo parlare di registrazioni casalinghe in totale autonomia pensiamo subito agli effetti della pandemia… ci siamo vicini questa volta?
Nel mio caso non credo c’entri molto la pandemia, almeno non a un livello consapevole.
C’è qualcosa di primordiale, potente e onesto nel piazzarsi davanti al microfono nell’intimo delle proprie mura domestiche; si perdono molti dei filtri e delle pretese che uno si porta dietro quando entra in uno studio. Per me contava questo, insieme all’intenzione un po’ mistica di registrare le canzoni proprio lì dove erano nate, nella mia camera da letto.

Che poi salta all’occhio (e all’orecchio anche se poi il tema prende altre derive) un titolo come “Mo sto a casa”…
C’è quel verso di Montale:“[…] noi, della razza di chi rimane a terra”. Ecco, io sono uno che raramente s’imbarca o prende il volo, piuttosto mi tormento sulla soglia. Questa retorica del viaggio non la sopporto più. Siamo tutti esploratori e giramondo, non vediamo l’ora di visitare Bali o la Giordania, ma poi al ritorno diciamo le stesse idiozie di quando siamo partiti. Ciò che abbiamo dentro casa, i mostri sotto al letto, gli scheletri nell’armadio, le mappe di tesori in soffitta, ecco, quello mi affascina. Per chi rimugina in maniera esasperata su ogni dettaglio, anche mettere il muso fuori dalla porta è un’impresa epica. Di qui la domanda “Vado mo’?”

È come se nel retrogusto di questo lavoro campeggi un pizzico di disillusione… sbaglio forse?
Delicato eufemismo. “Teverend”, la prima traccia, invoca la piena del fiume e la sommersione di Roma al grido di “lavace tutti”. Certo, c’è parecchia disillusione, ma anche molto sentimento, ed è qui che sta il blues, più che nelle scelte melodiche e armoniche. Sono sempre stato serio, anche da adolescente, ma non ho mai preso troppo sul serio né me né gli altri. Non ho mai avuto aspettative, perché questo mi aiuta ad apprezzare quanto mi capita di buono, senza dare niente per scontato. Essere disillusi in maniera divertita, senza diventare cinici, la reputo una virtù da perseguire e un’arte da affinare per tutta la vita.

Oggi la canzone d’autore e il mestiere del cantautore… in che modo si innestano nel vivere quotidiano?
Temo che non si tratti più di un mestiere, ma di guerriglia, di resistenza, che coinvolge cantautori e tanti altri musicisti. Si combatte contro l’impero dell’immediatezza, accettando la sconfitta. Nell’arco della giornata di un ascoltatore c’è spazio per un singolo di due minuti e mezzo, che attinga possibilmente a un vocabolario di massimo duecento parole. Tutto il resto richiede un investimento troppo esoso per un guadagno incerto. Non c’è tempo per lasciare che un disco cominci a farsi capire dalla quinta traccia (o peggio ancora al secondo ascolto). Non c’è tempo per un disco in generale. Forse perché siamo troppo impegnati a postare le foto di Bali o della Giordania con le didascalie adatte. In ogni caso, è proprio a causa di queste difficoltà e della sua incompatibilità con il vivere quotidiano che scrivere canzoni oggi è di capitale importanza.

E questa copertina che molto richiama Hopper?
L’ho disegnata con il grado di sporcizia e ruvidità che si addice al termine lo-fi. C’è la solitudine notturna e la nostalgia di un locale blues, ma sembra anche l’inizio di una barzelletta: “un tizio entra in un bar…” C’è il giusto grado di incertezza, di uno che non sa se ridere o piangere, restare o andare.