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Roma. Giardini della Filarmonica
Rassegna ‘I solisti del Teatro’ – Teatro Inchiesta
‘Le Toghe in giallo’ e Luigi di Majo presentano:
“IL DELITTO DEI FRATELLI KARAMAZOV”

di Sebastiano Biancheri

Da mercoledì 6 luglio a domenica 4 settembre 2022 a Roma nella cornice arborea dei Giardini della Filarmonica si rinnova l’abituale appuntamento estivo con la rassegna “I Solisti del Teatro”, storico festival romano diretto da Carmen Pignataro, giunto alla XXVIII edizione.

Ogni sera e pressoché tutte le sere fino alla conclusione della kermesse, il pubblico romano e vacanziero è chiamato qui a deliziarsi tra prosa, intrattenimento, concerti, balletti di assoluto livello artistico. E’ in questo eccitante scenario reso infuocato da un estenuante picco di aria calda e umida che il 18 luglio dopo il tramonto e fuori programma, la compagnia di giuristi ‘Le Toghe in giallo’ ha messo in scena lo spettacolo ‘Il delitto dei fratelli Karamazov’, liberamente tratto dal romanzo di Fedor Michailovic Dostoevskij, un classico della letteratura, un capolavoro di tormentata, poliformica umanità e di altrettanto ricca, lucida introspezione di sentimenti contrastanti, di tempeste inestricabili che scuotono e spesso devastano la mente dell’uomo.

L’avvocato Luigi di Majo, attore e fine drammaturgo di lungo corso, nonché autore e interprete di suggestive rievocazioni per il teatro dei più importanti e discussi processi storici, dalla congiura di Catilina fino ai giorni nostri, ha firmato il testo e curato altresì la regia, con la collaborazione di Lucia Nardi.

‘I fratelli Karamazov’ doveva essere, nelle intenzioni dell’autore, un racconto propedeutico che avrebbe dovuto narrare solo un momento della prima giovinezza di uno dei fratelli, il più giovane, Aliosia, personaggio a lui molto caro e per questo definito ‘il mio eroe’. Quel disegno rimase incompiuto e il romanzo divenne la sua opera massima, costituita da ben dodici libri e un epilogo. Rappresenta la summa del suo pensiero, il testamento letterario oltreché spirituale, perché non ebbe il tempo di scriverne il seguito. La vicenda è nota e tratta di un omicidio abietto, contronatura, e delle conseguenze nefaste, della disperazione, degli odi trasversali, dei conflitti devastanti e del rimorso che attanaglieranno le anime di tre fratelli, prima della conversione e del riscatto, tutti accomunati da colpe che non prevedono attenuanti, da responsabilità significative, complesse e differenti, tutte altrettanto determinanti e decisive. Fedor è un uomo anaffettivo, amorale, proprietario terriero rozzo e dissoluto, padre di quattro figli avuti da diverse relazioni. Dimitrij è il maggiore, anch’egli legato, ma per necessità, a interessi materiali. Entrambi sono invaghiti della stessa donna, Gruscenka. Il figlio detesta il padre, di cui condivide solo in parte la natura irascibile., E’ dibattuto tra propositi scellerati e prospettive edificanti. Intriso di passionalità, pur nella consapevolezza del peccato, è uomo onesto e generoso e anela al superamento delle contrapposizioni e dell’odio. Verrà accusato ingiustamente di aver ucciso il padre.

Ivan è un ribelle arguto, intelligente e raffinato, sicuro di sé, razionale fino alle estreme conseguenze nelle sue elucubrazioni teologiche e filosofiche, lacerato dal dubbio della fede da cui rifugge, misericordioso verso l’universo sofferente, soprattutto infantile. E’ un anti Dio di cui rifiuta la promessa futura, ne rinnega quindi il disegno salvifico come incomprensibile, inaccettabile e disumano. Le sue teorie del ‘tutto è permesso’ influenzeranno la volontà omicida da parte del fratellastro Smerdjakov fino a suggestionarlo e ad armarne la mano. Sarà divorato dall’angoscia nell’ultimo percorso di vita.

Entrambi sono figli di Sofija Ivanovna, donna pia, dolce e sensibile, affetta da una malattia nervosa, precocemente scomparsa anche per le sofferenze subite a causa dei continui tradimenti di Fedor. Alioscia è il figlio minore, un essere candido e ingenuo; non conosce malizia, è autenticamente e naturalmente volto al bene di cui incarna gli aspetti più nobili e sublimi. Impetuoso anch’egli per disposizione ereditata, lascia il ginnasio ed entra come novizio in un monastero. La sua anima piena di estasi vive di misticismo e per l’immortalità. Senza compromesso alcuno. Accusato da Lisa, una giovane che si innamora della sua purezza, di essere stato vile per non aver tentato di impedire la spirale di violenza in cui è sprofondata la sua famiglia, diverrà il più involontario ed impotente testimone della tragedia. Smerdjakov è il diverso, figlio illegittimo nato da una relazione con una povera demente. Disturbato egli stesso, epilettico, forse pretestuosamente, trattato da servo, coverà il suo rancore nel silenzio della follia e diventerà succube del pensiero distruttivo di Ivan. Fratelli contro e complici compongono un quadro familiare articolato e psicotico.  Alioscia e Dimitri favorevoli intimamente al perdono. Ivan e Smerdjakov votati all’esaltazione dell’io e al risentimento. In ciascuno di loro il processo di elaborazione della colpa risulterà molto differente.

Il sipario si apre con i rappresentanti della corte, i testi e l’imputato schierati sul palco mentre sullo sfondo si rievoca l’episodio dell’aggressione all’anziana governante Varvara da parte di Dimitrij, presunto colpevole del parricidio. La formidabile declamazione di Luigi Di Majo (Pubblica accusa) dell’ode tratta da Adelchi – Coro dell’atto terzo introduce il processo: lamento intriso di pessimismo cosmico, presagio di sofferenza sui destini dell’umanità divisa ineluttabilmente tra oppressori ed oppressi. Denuncia accorata di un mondo in cui prevale la logica della violenza e della sopraffazione che segna il destino degli umili, degli inermi, degli ultimi; un monito a risvegliare le coscienze, per ritrovare, nell’autodeterminazione, consapevolezza e orgoglio smarriti. Adelchi e I fratelli Karamazov: due tragedie che esaltano il dramma interiore dei personaggi, il contrasto insanabile tra ideali e sentimenti, la superiorità dei primi ma anche l’impossibilità a realizzarli. Una visione pessimistica che in Manzoni troverà poi superamento e conforto nella Provvidenza e in Dostoevskij nella conversione dei cuori e nella speranza che comunque pervade il racconto fino al suo epilogo. Nell’intento del di Majo intravedo la parabola del mito edipico, il suo rovesciamento. Scorgo l’indignazione verso la barbarie delle aberrazioni nel mondo, l’insania di anacronistiche e deliranti voglie di uno stato padre-padrone che non si ferma davanti alla primigenia bellezza del figlio ripudiato, abituato com’è a materializzare ogni valore, e ne vuole violare il mistero, per estirparla, dissacrarla e impedirne l’inevitabile sviluppo.

Il processo.

L’udienza si apre con la deposizione dell’imputato e della governante dopo che il tema dell’imputazione è stato letto dalla pubblica accusa su richiesta del presidente. Vengono scoperchiati conflitti insanabili. Prima quelli di natura economica, relativi ad un’eredità materna che supera di molto i 3000 rubli accertati e mai corrisposta dal padre Fedor a Dimitrij, nonostante reiterate richieste da parte di questi avanzate con toni minacciosi e violenti. L’attrazione di padre e figlio per la stessa donna, Grushenka, dopo che Dimitri ha abbandonato la fidanzata Katia. Quei soldi che il padre voleva destinare alla presunta amante comune, anziché onorare il lascito a favore del figlio. Sono alcune delle motivazioni che avrebbero indotto Dimitri ad assassinare il padre. La pubblica accusa incalza nella sua arringa implacabile, ricostruendo nei particolari la scena finale del crimine. Ma la difesa del figlio maggiore è appassionata e sincera, socratica, inattaccabile. Non ha ucciso il padre nella sua dimora, né ha sottratto dal materasso il plico contenente i 3000 rubli incriminati. Le provocazioni del padre, anche nei momenti più difficili, mai avrebbero potuto prevalere sul sentimento filiale. Ma la sua versione dei fatti sarà alla fine considerata fantasiosa, ahimé, non solo dal pubblico ministero.

La testimonianza della spassosa e ciarliera governante Varvara Nikolaevna, colpita involontariamente con un pestello di bronzo da Dimitrij in preda a un raptus nella fretta di fuggire dalla casa paterna dopo essersi accertato dell’assenza di Grushenka, pur non pregiudicando la posizione della ‘colombella’ Dimitrij, appellativo con cui vengono da lei definiti amorevolmente tutti e quattro figli da lei cresciuti in assenza di guida materna, non sarà di molto aiuto. E’ quindi la volta di suor Maria Petrovna, formalmente una specie di dama di carità che presta il suo disinteressato servizio a favore dei bisognosi, e quindi dei Karamazov, in cambio di poco, nonché cugina della Grushenka. La sua deposizione si rivelerà reticente e interessata per tornaconto personale. Avrà il merito di evidenziare al meglio la personalità della cugina, il suo doppio, deplorando fermamente la relazione con l’imputato. Descriverà Dimitrij come una persona violenta e vendicativa. Le dichiarazioni dell’altro fratello Alioscia, impossibilitato a presenziare, sono affidate ad una lettera inviata al tribunale e tratteggiano i rapporti conflittuali tra Dimitrij e il padre tiranno; afferma di essere intimamente convinto dell’innocenza del fratello maggiore, buono e generoso, adombrando un’altra verità e un altro colpevole.

Katia, primo vero amore, rivela il suo trascorso sentimento per Dimitrij che si allontana poi da lei preferendole la Grushenka. Emergono la natura dei rapporti economici fra di loro, le reciproche difficoltà e la storia di un prestito che Dimitrij avrebbe in ogni caso onorato. La Grushenka, chiamata a dire la sua versione dei fatti, conferma il grande trasporto verso di lui, l’avversione per il vecchio Fedor da cui non si sarebbe mai fatta sfiorare, l’attaccamento al denaro per irrisolti problemi di infanzia: fame, miseria, abbandono. Anche lei fa il nome di Smerdjakov come esecutore materiale del delitto. Accusa Katia, ‘un angelo del male’, di voler vendicarsi di Dimitrij per essere stata da lui abbandonata. E di aver circuito Ivan per gli stessi fini. Saranno ancora loro, verso la conclusione del processo, a contendersi la scena come oche starnazzanti in un pollaio. La relazione della psichiatra Varvinski, perito e testimone, assistente del prof.Majakovskij, confutando la tesi del dottor Herzenstube, e in piena sintonia con il proprio mentore, assevera che la psiche di Dimitrij non è seriamente alterata, nonostante i traumi nel tempo subiti. Non è avido di denaro né tantomeno ossessionato dall’avarizia. Pertanto le condizioni risultano normali, ancorché la sua collera nevrotica e i suoi turbamenti siano stati provocati dall’azione perversa del padre. I disequilibri di cui è preda non sono tali da provocare quella particolare ossessione mentale da inficiarne la capacità di intendere e di volere. ‘Egli sa e vuole quello che compie’.

Quella della Varvinski, più che una deposizione finalizzata alla ricerca della verità in un tribunale, sembra una esibizione di narcisismo puro alla fiera delle vanità dove chiunque può affermare tutto ciò che vuole senza tema di smentita. Mentre è chiamato a deporre l’altro fratello Ivan, giunge notizia del ritrovamento del corpo di Smerdjakov, trovato impiccato, suicida, nella propria abitazione. Ivan è sofferente a causa di continue allucinazioni che lo sconvolgono da tempo, sentendosi a giusto titolo il responsabile morale per avere istigato al delitto lo stesso Smerdjakov, da lui visitato poco prima di morire e le cui confidenze riporta naturalmente alla corte. Volendo liberarsi di un macigno che lo soffocava, Smerdjakov rivela l’intrigo da lui ordito per addossare la colpa al fratello Dimitrij. Irride i giudici, Ivan, che non crede alla loro compiaciuta giustizia, orchestrata per trovare un colpevole e non il colpevole. Li apostrofa con atteggiamento altezzoso e fiero, risoluto, senza tentennamenti. Accusa la Chiesa di aver abdicato alla parola evangelica e di aver sacrificato l’uomo sull’altare dell’inquisizione. Quindi, assecondato da Dimitrij, li invita a ricercare finalmente la verità, che non appartiene però a quell’aula di tribunale.

L’invocazione del ‘Dies irae’, inquietante e profetica, chiude magistralmente l’opera e anticipa l’ignominioso verdetto di condanna di un giusto da parte dell’umana corte, in nome di una giustizia cieca, malata di potere, astratta dalla realtà dei fatti e dal fine ultimo che dovrebbe ispirarla, che non persegue la verità, non cerca le prove della responsabilità, e pregiudizialmente e senza appello condanna.

Una rappresentazione di grande effetto. Una ricostruzione evocativa esemplare. Tutti all’altezza del proprio ruolo gli interpreti, con una segnalazione particolare per il protagonista maschile, Luciano Faraone che ha impersonato un Dimitri sicuro, vibrante, convincente. Dotato di straordinaria presenza scenica e personalità irradiante, modula con efficace veemenza gli stati d’animo e le tensioni del controverso personaggio.

Presidente: Pino Nazio; difesa: Ferdinando Abbate; pubblica accusa: Luigi di Majo; Dimitrij Karamazov: Luciano Faraone; Katia: Elisabetta Magrini; Varvara(governante): Beatrice Palme; Gruscenka: Raffaella Monaldi; Suor Petrovna: Roberta Ruta; dottoressa psichiatra Varvinski: Maria Grazia Giacchetta; Ivan Karamazov: Edgardo Valentini.

Regia e libero adattamento da Dostoevskij: Luigi di Majo. Musiche di Prokofiev.
Foto di scena di Francesca di Majo.

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