Spread the love

Abbiamo incontrato la scrittrice Edith Bruck per Seven News Italia.

di Ester Campese

Persona amabilissima e sensibilissima, ci accoglie nel suo salotto con grande disponibilità. Nei suoi libri ha denunciato gli strazi vissuti nella Shoah. Donna piena di energia e instancabile testimone, chiama le cose con il proprio nome, con la schiettezza di chi ha saputo superare l’inferno. Fin da piccola si è resa conto di vivere in un mondo che sentiva iniquo e discriminatorio, oltre che pieno di quella cattiveria umana che talvolta sa infliggere infinite crudeltà.

Edith Bruck

In questo suo percorso di narrazione e di memoria, ci spiega che incontra tanti giovani che non sanno la storia, che non ne conoscono le piene verità. Con instancabile pazienza corregge anche quelle informazioni che la storia stessa ha consegnato in modo errato. Spiega così la sua esperienza che ha grande valore anche perché testimone diretta.

Edith Bruck sa l’importanza di trasferire ciò che è accaduto, il valore della memoria.

Edith Bruck sa quanto sia importante trasferire ciò che è accaduto realmente, anche ai giovani, anche nelle scuole. Dai giovani riceve un grande riscontro e consapevolezza. Questo è consolante in quanto ciò che è avvenuto, che accade e che accadrà nel futuro, riguarda tutti. In questo mondo globalizzato tutto è vicino, dalla salute alle guerre, dal bene al male.
Non si sottrae la scrittrice nemmeno ad affrontare il tema dell’attale guerra in Ucraina e sottolinea quanto sia stato incauto da parte del Presidente Ucraino fare il paragone di questo loro periodo bellico con la Shoah. Sui giornali, sul tema, c’è stata infatti una decisa presa di posizione ufficiale anche da parte del governo Israeliano.

Le cinque luci 

Particolarmente commovente è stato il racconto di Edith Bruck riferito alla recente visita che Papa Francesco le ha fatto, andando a trovarla nella sua stessa abitazione anche per chiederle perdono a nome di tutta l’umanità. Anche con il Papa ha ripercorso i cinque episodi, le cinque luci come le chiama Edith, che le hanno dato la forza per affrontare l’inaffrontabile e sopravvivere. La prima luce fu un gesto di pietà umana da parte di un soldato tedesco, un gesto positivo nell’inferno più totale, che le sussurrò e poi la spinse ad andare nella fila dei prigionieri verso i campi di concentramento e non subito alle camere a gas.
Il secondo episodio avvenne nelle cucine del campo di concentramento di Dachau, dove il cuoco le chiese “come ti chiami”. Questa domanda sentì che le restituiva dignità umana e la dimensione di una persona a chi era considerato solo un numero. Dal taschino il cuoco estrasse un piccolo pettinino e lo donò alla piccola Edith. L’ulteriore episodio che le è rimasto impresso è stata una gavetta, sbattuta sul petto, nel cui fondo erano rimasti tracce di marmellata. Quel cibo era qualcosa di immenso che rappresentava la vita. Anche un misero guanto bucato, gettatole da un soldato a Kaufering, rappresentò la protezione dal freddo e quel buco era pieno di vita.

La marcia della morte

La crudeltà massima fu la marcia della morte fatta di mille km a piedi finché giunsero ad un campo dove il pavimento era ricoperto completamente di cadaveri, nudi, bianchi. I tedeschi ordinarono di “ripulire” promettendo una doppia dose di zuppa che poi era una brodaglia che nemmeno fu data. Due di questi moribondi – racconta Edith – le chiesero di raccontare i fatti se fosse sopravvissuta. Dopo due giorni i tedeschi ordinarono di portare dei giubbotti, seppur deboli, sia lei che la sorella obbedirono. Si misero così in marcia con 12 giubbotti ciascuno che durante la marcia diventarono talmente pesanti che man mano tutti cercarono di eliminarne qualcuno.
Un soldato tedesco accorgendosi dell’accaduto, perché la neve era oramai piena di questi giubbotti, chiese chi avesse cominciato a gettarli altrimenti avrebbe sparato ad ogni seconda persona in fila con loro. Edith fece un timido piccolo passo avanti e il tedesco l’aggredì ferendola e facendola cadere nella neve. La sorella con tutte le poche forze che aveva si avventò per proteggere Edith. Il tedesco rialzandosi con la pistola in mano si diresse verso di loro che pensarono di morire di lì a pochi attimi. Invece rimise la pistola nella fondina.

Edith Bruck

Nulla è più come prima

La tragedia che investe una persona dopo una esperienza di tale portata non termina alla liberazione. Dopo la guerra i rapporti con l’umanità sono diversi con tutti: parenti, vicini e conoscenti. Si viene rappresentati come sopravvissuti. Ognuno può dire anche noi abbiamo sofferto, ci hanno bombardato, abbiamo perso i nostri cari, abbiamo subito la fame, ma non si riesce a comprendere fino in fondo la gravità di quanto abbiano sofferto i sopravvissuti ad un campo di concentramento. Solo con il fratello di Edith, anche lui deportato, nel silenzio più totale aveva piena comprensione.

Anche prima di essere deportata ciò che la addolorava era il comportamento dei compagni del villaggio, i quali avevano il potere più totale sugli ebrei. Persino dei ragazzini la fecero sedere sulle delle ortiche con le natiche scoperte. Anche dopo la guerra non fu meglio, una volta tornata al villaggio trovò tutto distrutto e nel letame solo alcune fotografie che riuscì a salvare e ripulire. Episodio che riporta anche in uno dei suoi libri “Il Pane perduto”.

Dopo i campi di concentramento è riuscita a recuperare una certa serenità, trovando una sorta di nido definitivo in Italia. In particolare quando giunse a Napoli, e senza nemmeno capire una parola, solo dagli sguardi, si sentì accolta da un’atmosfera calda, accogliente che ad esempio non aveva trovato in Israele dove aveva tentato di reiniziare la sua vita. Si spostò poi a Roma dove iniziò a scrivere nel 1959 il suo primo libro, non fermandosi più da lì in avanti.

Leggi altri articoli qui