Ho fatto caso come mole di queste nuove scritture, e penso sicuramente in primis a “Dansa”, si aprono con lievitare leggero di landscapes elettronici che non lasciano presagire orizzonti puliti e armonici. Piuttosto il cemento di qualche città futuristica. Poi lo sviluppo percussivo che nel caso di questo brano resta comunque industriale. Non è come nella title track che apre il disco che poi ai suoni meccanici subentra uno scenario di pace e di umanità in colorazioni luminose, quasi rituali che somigliano a preparativi per i giorni di festa.
Insomma: “Ekùn” è un disco che potrei sintetizzare con queste due facce e sono sicuro che mancherei mille altre direzioni possibili. Bruno Genèro in coppia con il producer Alain Diamond sforna un disco davvero interessante in cui l’uomo e la macchina si mescolano assieme. Il primo non rinuncia alla sua ritualità, appunto… la secondo non fa un passo indietro nel dipingere il mondo con matematica di precisione. Eppure, semmai dovessi chiedermi chi ne vien fuori dei due, penso che questo sia un disco di uomini e non di macchine. Come dentro la intro di “Sandagá”, come nel suo sviluppo, come nelle sue soluzioni: la macchina è al servizio. L’uomo è il padrone di casa. L’Africa di Bruno Genèro qui si condensa e non si riassume, piuttosto si sviluppa senza maschere e senza finzioni. “Ekùn” diviene perciò un viaggio emotivo senza sosta… fateci caso: il disco si chiude con una composizione come “Agoï”… ogni artificio sparisce, resta solo il djembe a segnare la via. Resta solo l’uomo. Qui si chiude, ma soprattutto, qui si manifesta a pieno questo nuovo disco di Bruno Genèro.