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Un titolo che porta con se un potere cinematica assai interessante: “From the other Hemisphere” risulta nel sangue di queste nuove scritture di Deut, una commistione tra il suono ragionato e digitale – figlio di certi sapori urbani – e il folk acustico assai intimo e contemplativo. E tutto questo alla perenne ricerca di una risposta nella difficile accettazione del tutto. Ragionamenti complessi ma assai quotidiani nelle cose di tutti i giorni…

L’esordio sulla lunga distanza direbbe qualcuno. Disco che oggi suonerebbe bene in vinile. Un esordio oggi… per Deut che significa?
Il vinile! Devo ammettere che l’ho sognato… chissà!
Questo piccolo esordio credo sia uscito per costanza, avevo cominciato qualcosa e forse andava portato a termine. Ostinazione direi… qualcuno del settore ai tempi dell’ep mi chiese “perché non hai fatto un album?”. Per tanti motivi tra i quali la cautela, mi sono detto… inoltre mentre suonavo i primi live nel 2019 con dei pezzi di questo album, le persone mi chiedevano se li avessi già registrati…
Così ho raccolto le forze e ho provato a dargli un ordine anche grazie a David Campanini, col quale ho iniziato questo percorso: un sostegno vero oltre che un produttore.
Per me è il chiudere un cerchio, ho investito molto a livello personale e ne sono davvero felice.

E regalaci anche un volo a planare su questo moniker: che significato porta con se?
Sarebbe DE (staccato) UT, cioè “sul do”, discorso intorno alla prima nota. Pare più un volo pindarico, tra il maccheronico e il pedante. Mi son detto che a volte sono maccheronico e pedante perciò l’ho tenuto così. Inoltre molte delle cose che campiono sono in scala diatonica di do, comune tra gli strumenti giocattolo.

E questa copertina? penso più a luoghi ameni, uffici omologati, il grigio di abitudini più che al legno intimo di una chitarra acustica…
Per contrasto la copertina rispecchia i testi, spesso opposti alla melodia e alla semplicità di alcune strutture. Volevo dare un tono scuro per dichiarare con onestà che si tratta di un album leggero solo all’apparenza. C’è chi ci ha visto della dolcezza, chi della violenza… il bello di alcune cose è che possono essere interpretate con libertà.
La stessa che darei a chi ascolta.

Parli di un diario musicale: cioè? Questo disco quanta vita porta con se? E quanta poi te ne ha fatta scoprire?
Per ogni brano di questo disco ne ho scritti altri cinque, macinato almeno una ventina di album fino a consumarne l’ascolto e obiettivamente è passato molto tempo. Ho lasciato decantare molte cose, anche al di fuori della musica e questo mi è servito. Una ricerca personale che mi ha portato a tradurre le cose che non credevo di poter esprimere. Sono davvero le pagine di un diario, alcuni brani (per me) non hanno nemmeno la forma di canzone e sono stati scritti principalmente di getto come l’ep, sfruttando la spontaneità di una bozza, di un’idea primaria.
C’è poco di costruito, certo c’è della struttura negli arrangiamenti ma abbiamo cercato che non fosse mai invadente nei confronti del corpo del brano.

Chitarra acustica o chitarre elettriche? Che rapporto hai con le distorsioni?
In passato i miei ascolti sono stati anche punk, grunge, molto metal/nu-metal e posso dire di adorare tutte le distorsioni dalle fredde digitali alle calde saturazioni. In sostanza mi piacciono i muri di suono e nella mia fantasia in questo album ci sono delle intenzioni che mi riportano alle radici senza distorcere troppo. Caratterialmente però sono più per la chitarra acustica, la sento più vicina e mi piacciono le vibrazioni che trasmette al corpo quando suona.